“L’indomabilità dell’acqua e l’urgenza”

Silvia Secco

“Noi, quelli di allora, già non siamo più gli stessi”.


Martina Dalla Stella: l’indomabilità dell’acqua e l’urgenza.
Può essere l’arte, disperato bisogno? Sete? C’è, in questi dipinti di Martina Dalla Stella, (la si
avverte) come una Urgenza del gesto artistico. Come se l’arte, il farla, fosse l’acqua necessaria a
placare l’arsura (l’aridità del mondo, la sua non fecondità) o la disperata necessità del fluire al di
fuori, in piena, in diluvio di pioggia, neve, vento da questa claustrofobica aridità, insoddisfazione;
dal lento morente susseguirsi dei giorni.
Come se il dipingere fosse il talismano, la cura al terrore del tempo che muta e ci muta e smorza la
passione nella dimenticanza o, peggio ancora, nel tran-tran.
Così c’è il colore (come in un’altra occasione ho avuto modo di dire): l’esplosione sensuale del
colore, nelle sue opere. Molto prima della forma delle cose, molto prima del disegno e della linea.
E non è mai colore sfumato, tenue, tranquillizzante. Anche nel caso dei Bianchi o degli Azzurri,
esso rimane materico, plastico, quasi sfrontato e quasi sempre primario; quasi “primitivo”, se è
possibile usare questo termine.
Un colore che si fa viaggio e meta allo stesso tempo, nei vari momenti di composizione dei quadri,
ed in funzione dell’inquietudine interiore che esso serve a rappresentare.
Così abbiamo i Rossi (mi piace pensare che il percorso potrebbe essere questo) di “Nosotros…”,
della “Curandera”, del “Burattinai e burattini”, del “Aspettando per migrare”, delle “Calle” e del
“Autoritratto (solo viso)” per le passioni accese, per l’energia e le denunce di un “mondo alla
rovescia” che diviene furiosa insofferenza sbocciata in magma/lava. E così il Rosso si fa Nero, nel
secondo “Autoritratto (con l’aquilone)” e nel “Mi covo un segreto, mormora ela…”, per arrivare al
Nero quasi assoluto del altro ed intensissimo “Autoritratto” nel quale l’io è sommerso, dal quale è
sovrastato, affogato: nero-notte interiore, angoscia, nero-morte.
Poi.
Poi però ci sono i Gialli delle lune (mai piene lune, tuttavia. Mezzelune: levantesi, in fieri…) e il
Nero si fa Blu con l’ “Anguana” in uno slancio tutto verticale, come fosse una resurrezione
rabbiosa, furente: una frenesia di danza selvatica e libera, sfogo del “sangue”, appunto,
“insinganà”.
E gli Azzurri liquidi della “Pioggia” e delle “Rondini”, di “Mediterraneo”: la sete abbeverata di
pianto o diluvio, “slavajo” salvifico che placa poiché inonda, fluidifica, scioglie. E c’è allora, forse,
un cielo d’acqua in colata anche in “Su sonrisa”: un cielo d’acqua che somiglia ad un porto, una
cala, un approdo, un senso… a riprendere fiato quasi. Quasi la tregua fosse possibile, la salvezza –
nonostante, a lato, il “Funambolo” sia sempre presente, in bilico sul filo, in rosso/precario equilibrio
sul niente, “In sospeso”, “Funambolando”, mentre Azzurro cola ancora, (si disfa) nei Bianchi -.
Il Bianco è il desiderio. (Probabilmente lo è).
Desiderio di sete placata che il titolo del bellissimo “Vorrei stendere al sole la mia anima” chiarifica
pienamente. Pace (ma desiderata, sognata: pace/chimera, appunto.).
Il lavoro artistico di Martina Dalla Stella è un invito al Viaggio (essendo il “viaggio” e l’”andare”
condizioni esistenziali essenziali dell’artista e della persona) in luoghi reali (l’amatissimo sud
America di “Villa miseria”, il Nepal, l’India, il Portogallo, ma anche l’Alto-Vicentino e la “casa” dai
volti famigliari di “Come in un ricordo” e di “Neve”) ma non di meno nei luoghi dell’anima:
un’anima mai pacificata e, anch’essa, “viandante”, ma generosamente qui mostrata, non trattenuta,
esposta a volte come un grido, altre come assenza, o attesa/silenzio.
In questo modo anche il percorso visivo delle opere qui esposte, si fa per lo spettatore un cammino
in una contemporanea ed umanissima “Comedia” il cui fine lieto, però, (il Paradiso) sembra
sfuggirci come, probabilmente, ancora sfugge all’artista.
Un punto d’arrivo, semmai il trovarlo fosse indispensabile, (la frase finale della fiaba) sembra allora
essere la negazione: la rappresentazione di ciò che la poesia (spesso qui citata, anche negli stessi
titoli o nelle iscrizioni dei quadri: da P. Neruda a E. Sartori, ma comunque sempre evocata e
presente nei contenuti: Machado, l’amato Pessoa, Mario Benedetti) ben suggerisce con le parole, ad
esempio, di E. Montale:
“…Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…”
(E. Montale, “Non chiederci la parola”, da “Ossi di Seppia”, 1923)
O di Alda Merini:
“…Era questo di me che non volevo:
condurmi, trascurando ogni mia forma,
al vertice mortale della vita…
Ma la presenza di ogni mia sembianza
quale urgenza incalzante di sviluppo,
quale presto proporsi
e più presto risolversi d’enigmi!…”
(A. Merini, “La presenza di Orfeo”, 1949)
Se si dovesse dare un titolo a questa esposizione (che non è un’esposizione d’esordio per Martina
Dalla Stella, ma probabilmente lo rappresenta), esso potrebbe essere “Sinestesia”, perchè in questo
viaggio perfettamente si “sentono” i fischi liberi e salvifici di rondini, il freddo del “Covo” dove la
donna si stringe nelle spalle, l’erotico-palpabile-umido invito dei fiori in “Nosotros”, il rumore
scrosciante di una pioggia in cui siamo effettivamente immersi e fradici, la pelle di madre e figlia
unite nell’abbraccio che anche noi accarezziamo, il loro respiro che annusiamo, che ci sposta i
capelli ed è tiepido. C’è il profumo del vino nel bicchiere, il pelo del gatto che accarezziamo
assieme alla Curandera… C’è tutto questo. Molto altro ancora.
Ma forse il titolo migliore é la fusione di due titoli scelti proprio dall’artista per due dei suoi quadri.
Ed uno dei due titoli è un verso, appunto, di una poesia (P. Neruda, da “Poema xx” : “Nosotros, los
de entonces, ya no somos los mismos”):
Noi, quelli di allora, già non siamo più gli stessi.
Come acqua tra le mani (la vita): impossibile contenerla.