“La luminosa inquietudine”

Silvia Secco

Ci sono diverse ragioni per le quali dire qualcosa, in forma di scrittura, sull’opera pittorica di Martina Dalla Stella,
rappresenta per me un privilegio. La prima riguarda la nostra complice “sorellanza”, nata immediatamente negli
anni degli occhi aperti, rimasta paziente ad attendere in quelli degli allontanamenti e sempre ritrovata, sempre più
stretta, dopo le curve della strada. Tutte le altre ragioni riguardano il suo talento, ma si legano indissolubilmente
alla prima attraverso il filo di una parola poetica che viene a descriverci entrambe: inquietudine.
E’ l’inquietudine a far muovere le mani.
La quiete è contemplativa: il soggetto che la vive ha una sostanza di garza attraverso la quale il mondo, come
l’aria, passa senza sostare e non germina, non marcisce né fiorisce. La sfera della quiete non appartiene alla carne,
ma alla riflessione. E’ statica: essa non fa. “Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe” (Fernando Pessoa, Il libro
dell’inquietudine)
L’inquietudine, invece, è spugnosa caverna di cuore: sostanza che raccoglie fino alla saturazione, per allagare poi,
a piena compiuta, di una piena di pollini.
Così l’inquietudine si fa gesto artistico, in un rinominare il mondo con le proprie vocali, a volte per lodarlo, altre
per gridarne i brividi. Ed è questo fare dell’arte che vedremo qui esposto, nei dipinti di Martina Dalla Stella, a
cominciare dai brividi, dalle grida.
La volontà dell’artista di aprire la mostra con le tele di denuncia sociale della sezione “Respect please” è, infatti, una
precisa scelta politica. Abbiamo grandi tele, dove le campiture stese, vaste, dei rossi sanguigni o dei chiari d’acqua
o d’aria degli sfondi (quasi fondali scenici) sono esattamente il magma di piena, all’interno del quale l’uomo, la
donna, l’umanità, con la propria pena, si espongono stilizzati quasi come tagli, a volte resi ancor più netti da un
vero e proprio collage di volti, mani chiedenti e alzate, occhi, bocche, dai contorni neri, netti come un urlo e,
come un urlo, violenti. Davanti a questi dipinti non posso non pensare a Wislawa Szymborska, al suo
espressionismo piano ma tenace di parola che ci chiama tutti “Figli dell’epoca”, dentro l’epoca e dentro l’individuo
che nell’epoca vive (caparbiamente vive) e viene a grida di essere senza assistere. E di sentire. E di sentire con:
com-patire.
“Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non devi neppure essere una creatura umana
Per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma
Si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a un rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano
e i campi inselvatichivano”
(Wislawa Szymborska, Figli dell’epoca)
In questa prima stanza di esposizione siamo, così, immediatamente immersi nel magma fino all’ombelico senza
possibilità di arretrare. Lo è, con noi, anche l’artista stessa che in “Como aceptar la falta de savia…” si mostra (a mio
parere come in un autoritratto a figura intera) nel faticoso ed umanissimo tentativo di auto salvazione e di risalita
(“su, su, Münchhausen”, come invocherebbe Andrea Zanzotto) verso una altitudine che però non ne regge il peso e
si piega in vetta, mostrando il vuoto dietro al mondo: mondo che, in questo caso, sembra essere sia il fondo che
il drappo d’appiglio.
E lo siamo, di nuovo, con lei, nello splendido “La rotta dei Balcani”, in quanto umanità sgomenta di sagome in
fuga a disegnare declivi di paesaggi e diagonali d’orizzonte sotto la cappa di un cielo privo d’ogni divino, denso
come una disperazione muta, dove la cataratta di rosso arterioso sembra colare tutta intera la sventura.
Il tema delle campiture e delle colature (gocce, spruzzi, macchie di colore) rappresenta probabilmente la chiave
tecnica di Martina Dalla Stella, esattamente come la “Luminosa inquietudine” ne rappresenta la chiave concettuale.
Ritroviamo, infatti, entrambe queste caratteristiche nelle opere delle altre stanze di questa esposizione, le quali
solo apparentemente paiono portare una tregua soggettiva. In realtà vediamo come, anche nei dipinti più intimi a
tema familiare o naturale, il mondo rappresentato non sia mai delineato tenuamente ma venga a sgretolarsi (a
gocciolare quasi) proprio nel suo atto di mostrare se stesso. Lo vediamo in “Ben oltre le idee di giusto e di
sbagliato…”, dove il paesaggio – il campo laggiù – è sconvolto da una tempesta di vento che non ha nulla a che
vedere con il fenomeno fragilissimo atmosferico ma che riguarda l’interno, nero e fragilissimo, dell’individuo
appena accennato accanto al grande albero (ancora una volta un autoritratto).

Lo vediamo nel bellissimo “Vorrei stendere al sole la mia anima”, in quel cielo mai pacificato, d’aria che penetra la
trama delle lenzuola, di sconfinamenti fra trame e di assoluto movimento. Tanto che viene da chiedersi se l’anima
sia, in questa tela, il candore dei lenzuoli, il raggio di luce giallo che li tocca, l’azzurro in disfarsi dell’altra stoffa
stesa segnata di rosso e nero, oppure proprio la macchia di nero a lato sinistro. Molto probabilmente l’anima
dell’artista, se l’impressione che fino a qui ho esposto è plausibile, è tutto questo allo stesso tempo. E non solo.
Forse l’anima è anche, come vedremo ancora, anche il “filo”, elemento simbolico ricorrente nell’iconografia di
Martina, inteso contemporaneamente come punto d’equilibrio (legaccio, legame) e di caduta: appiglio, ragnatela e
bava di memoria.
Ritroviamo, infatti, il filo anche nel commovente “Come in un ricordo…” dove il vero soggetto ritratto è
manchevole ed è esattamente il vuoto che tanto sa riempire la sedia lasciata nuda, legata dal filo rosso di lana allo
sguardo prima ed alle mani poi, della donna seduta sull’altra sedia (la nonna materna dell’artista), che diviene in
questo modo la metà che resta a ricordare (intrecciando i ricordi come le maglie della fibra), l’intero due che era
stata la vita.
Fili, colature su campiture di base e gocciolamenti ricorrono anche nei quadri di paesaggio e di natura.
Sono fili i rami degli alberi (rappresentati quasi sempre in inverno, spogli da gemme e foglie, nella nudità testarda
di qualcosa che sfida col segno il tempo della quiete e del riposo – della morte o della mortalità -), gli arbusti e
l’erba. Sono fili i falsi piani dai quali sfociano le farfalle di “E come le più belle cose…”, che anzi, forse sono un solo
insetto, colto nel suo divenire e svanire.
E sono fili i soffioni dello stupendo “Rento se sara la vose…”: fili di segni i soffioni, come l’erba ed i semi in
dispersione e come il filo di vento (“Vento”, qui, in assonanza di significante con il “Rento” del titolo: verso
rubato alla poesia – ancora una volta – di Enio Sartori, per descrivere una umanità che si fa anima a chiudere la
voce che non riesce a definire l’inquietudine che prova, e non può che disfarsi, disperdersi per germinare).
Sono campiture dense di magma non soltanto i fondali ma anche taluni soggetti, come i petali sensuali dei
“Papaveri”, che sono quasi sovraesposti nella loro materialità carnale sotto accenni di fili azzurri, reticoli segnati a
ripetere a memento la fragilità dell’equilibrio, a cospetto del reale. Qualsiasi esso sia: pure un reale esploso di
rossa e vitale energia in tempo estivo.
Abbiamo densità di colore e reticoli anche nell’apparentemente delicato “Alchechengi”: fili di ragno a definire quasi
una cristallizzazione di speranza
intorno alla materia di goccia, rossa, delle piccole cose capaci di bellezza.
“Io ballo quando vedo ballare”: questo scrive Pessoa. Ed è questo che Martina Dalla Stella fa attraverso la sua pittura:
una coreografia in prima persona all’interno dello spettacolo di danza del reale, dove il reale è il fluido generatore
del sentire, il sentire è un luminoso inquieto pulsare del cuore e il cuore non trova alcuna ragione di fermarsi a
rielaborare il battito con la ragione e lascia muovere le mani.