Sconfinamenti

Davide Fiore

«Queste opere per me sono una personale riflessione sui concetti di limite, sia mentale che fisico, sia scelto (raramente) che imposto, e sui confini, sulla poca memoria, sui corsi e ricorsi della storia…e sulla fragilità dell’essere umano, sul tempo che passa, l’effimero, ciò che non resiste. il tutto da un punto di vista ovviamente femminile.»

Conoscendo l’artista da molti anni, posso testimoniare come la produzione pittorica di Martina tracci una continuità col modo di utilizzare lo strumento espressivo caro soprattutto al Novecento. Un approccio per creare immagini e immaginari, secondo un preciso ideale sociale. La biografia di Martina e della sua famiglia è un diario di viaggio lungo una vita, fatto di partenze e di arrivi, di ritorni, di foto, di racconti e, chiaramente di mappe culturali ridisegnate sull’esperienza diretta.

I viaggi che l’artista raffigura con il colore non hanno alcuna idea di cartolina o, come ad esempio era in uso per i diari di viaggio del Grand Tour, una valenza di appunto, di annotazione delle impressioni. Martina raffigura il viaggiare quale spostamento umano, non turistico, di genti alla ricerca di una propria libertà individuale. Ma anche il colore è lo stesso viaggio. Il rosso cadmio, la lacca di garanza, il giallo indiano e i blu: blu di prussia, oltremare, cyan, ceruleo, cobalto sono a volte colori acquistati o fatti portare dai luoghi dove lei viaggia.

Il suo viaggio, è il risultato delle sollecitazioni ricevute dai muralisti del Messico e del sud America, capaci di rappresentare popoli, anziché individui, alla ricerca di una sopravvivenza dalle varie forme di oppressione. La sua formazione culturale ha sempre cercato quei riferimenti, quel modo di intendere l’arte per ragioni civili e di autodeterminazione.

Mi è rimasto impresso quando Martina, da giovane studentessa, dipinse i cassonetti del suo paese. Riflettiamoci un attimo. Intervenire con la pittura in oggetti di uso comune, in questo caso i contenitori dei nostri scarti, è di per sé una dichiarazione sociale ben precisa. Martina, esattamente come gli altri artisti di questo collettivo senza nome, intervengono nei luoghi e sulle cose degli ultimi. Pensiamo alle macerie della guerra, o ai muri di un edificio abbandonato all’ombra dei grattacieli… L’intervento dell’artista investe l’oggetto d’uso comune di una responsabilità precisa.
L’oggetto in uso o in abbandono, diventa supporto e tramite per comunicare l’opera d’arte, che è messaggio. Come dire che l’artista sceglie per quella “cosa”un destino di messaggero per la causa in cui crede. E la causa che Martina ha in seno, è un vero e proprio indirizzo politico, sociale e civile.

Dire che i muri e i confini sono un limite subìto e imposto, significa prendere parte ad un collettivo di pensatori e artisti non organizzati, uniti da una precisa idea politica del mondo. E questa non è come generalmente la riconosciamo. Essi dichiarano che l’esistenza degli esseri umani non necessita di barriere. Dichiarano che la geosfera, per sua natura, è una geometria che va lasciata libera di essere camminata liberamente.

Delle opere esposte, risultato dell’ultima produzione dell’artista, vorrei considerare due gruppi maggiori.

Il primo, quello degli SCONFINAMENTI, è la reinvenzione delle immagini a cui ci siamo abituati, fatta di migrazioni e di barriere, di fili spinati e di interminabili file di volti anonimi, che salgono e scendono la loro personale Babele. Sparse, o raccolte in cerchi, questi individui irriconoscibili rendono l’idea di un fenomeno perpetuamente in atto. “La poca memoria”, osservate con attenzione, è un mantra ripetuto infinite volte, che risuona come memento a chi, per comodità o distrazione, dimentica. O semplicemente ignora. In molti dei dipinti noterete un filo di lana rosso arancio. Pensatelo come l’origine dell’artista, come l’indumento a maglia prodotto dal lavoro della nonna nel silenzio della provincia, e come testimonianza del lavoro familiare dell’accudire, del proteggere, del donare alla generazione futura. Martina ne lega un’estremità ad un portoncino tipico delle case tradizionali portoghesi, o al balcone geloso di una finestrella orientale, persino nell’antica casupola contadina di queste terre. Un filo rosso unisce allora ognuno di noi, indipendentemente da dove ci troviamo e da quale gruppo culturale facciamo parte. Una delle ultime opere realizzate per gli Sconfinamenti, è un dipinto a scene che rappresenta la liberazione di un corpo femminile dalla rete di confini. Vorrei chiamarla “Falena”. Non in riferimento alle farfalle che le donano la libertà. Ma “falena” come si usa chiamare la cenere che si leva in aria da cose che bruciano.

Il secondo gruppo di opere, è quello delle Nature (il nome è dato da me). In queste Martina dichiara un ritorno alla raffigurazione naturalistica come origine dell’arte stessa, ovvero “l’imitazione della Natura”. L’ambiente naturale torna ad essere indagine dell’artista femmina, che è madre in una terra madre, e lo fa come momento di rigenerazione personale. La natura raffigurata quale forma di igiene, ma anche come archivio di quanto è avvenuto in quello scenario. Immaginiamo un’antica battaglia, o la Grande Guerra nell’Altopiano. I vinti rigenerano entrando nel ciclo naturale, arrivando all’immortalità, sotto diversa forma. Diventano erba che nutre, terra che accudisce. Inoltre, nelle Nature di Martina c’è sempre e solo un individuo. L’osservatore, ma anche l’uomo o la donna soli in cammino nel paesaggio. Paesaggio che è un archivio di quanto è passato di lì, anche se lo ignoriamo. L’individuo e il paesaggio sono un’unica entità solidale.

Il percorso di questa esposizione non può che condurre, come punto d’arrivo, al Trasporto di Cristo, o Deposizione, del Pontormo per la Cappella Capponi in Santa Felicita a Firenze. Martina interpreta uno dei capisaldi pittorici degli artisti indipendenti, ritrovando nel colore il combustibile al dramma religioso, che è il dramma di tutta l’Umanità. Come il nostro Pierpaolo Pasolini citò l’opera manierista per un tableau vivant dai risvolti grotteschi, nel film La Ricotta, così Martina torna sull’universalità dell’immagine religiosa per testimoniare le parole di Giona. “Dio in ogni cosa”, Dio arriva ovunque, anche quando Giona si trova inghiottito nel ventre del pesce. E con l’immagine sacra Martina torna alla bellezza del messaggio originario, ristabilendo che Dio può essere uno sconosciuto. Dio può essere chiunque e ovunque. Questo sconosciuto, la cui vita è sacrificata, è un’immagine sacra alla quale non possiamo rimanere indifferenti. E Martina colloca questa scena sul palco, con accanto un cielo rumoroso che ci appare silente, e un urlo silenzioso che ci appare assordante.